"Leggevano e primi pubblicavano iscrizioni piemontesi". Epigrafia, antichità e storiografia a torino nei secoli xvi e xvii.
 di Alice Digiacomo

"Leggevano e primi pubblicavano iscrizioni piemontesi". Epigrafia, antichità e storiografia a torino nei secoli xvi e xvii.

Tipologia:

Tesi di Laurea di secondo livello / magistrale

Anno accademico:

2012/2013

Relatore:
Silvia Giorcelli
Corso:

letteratura, filologia e linguistica italiana

Cattedra:

storia romana - epigrafia latina

Lingua:
Italiano
Pagine:
192
Formato:
Pdf
Protezione:
DRM Adobe
Dimensione:
7.62 Mb

Descrizione "Leggevano e primi pubblicavano iscrizioni piemontesi". Epigrafia, antichità e storiografia a torino nei secoli xvi e xvii.

“Leggevano e primi pubblicavano iscrizioni piemontesi un Domenico Belli, meglio conosciuto col nome di Maccaneo dalla sua patria Maccagno, e poco dopo Gaudenzio Merula e il fiorentino Gabriele Simeoni; ai quali tenne dietro Filiberto Pingone; il bresciano Giammaria Maccio produceva talune epigrafi torinesi, con altre di Alba, di Aqui e di Asti. [. ] Né più accorto fu il francese Samuele Guichenon, che nel 1660 mise alla luce una raccolta di cencinquanta iscrizioni di Torino [. ] Di altre epigrafi, per ignoranza smarrite, lasciò il ricordo Filippo Malabaila; ma le sue memorie astigiane impinguò di lapidi, che impure riconosceva lo stesso Agostino della Chiesa, vescovo di Saluzzo, benemerito della storia piemontese”. Aprendo l’anno accademico 1880/1881 dell’università di Torino con queste parole, il 3 novembre del 1880, Ariodante Fabretti, titolare della cattedra di archeologia, ricordava i nomi di coloro che per primi si erano occupati dell’epigrafia piemontese: Maccaneo, Merula, Simeoni, Pingone, Guichenon, Maccio, Ligorio e ancora Malabaila e Agostino della Chiesa. Dunque, questi sono i nomi dei primi personaggi che, in Piemonte dagli inizi del xvi secolo, decisero di proporre nelle proprie opere le antichità romane. In seguito alle prime raccolte pioneristiche menzionate da Fabretti, l’epigrafia piemontese è stata oggetto di studi sempre più approfonditi, culminati nell’Ottocento con i lavori di Carlo Promis, Theodor Mommsen e dello stesso Fabretti. A loro volta, gli antichisti del xviii e del xix secolo sono stati studiati e il loro lavoro è stato analizzato da un punto di vista metodologico e contenutistico in importanti contributi pubblicati negli ultimi decenni. Viceversa, i primi eruditi che tra Cinquecento e Seicento si occuparono dell’epigrafia latina del Piemonte non sono, dopo l’interesse suscitato a fine Ottocento, stati ulteriormente studiati. Da questa constatazione nasce il presente lavoro: scopo della ricerca che viene qui offerta è una ricostruzione delle biografie dei principali personaggi citati da Fabretti nel suo discorso, al fine di comprenderne motivazioni, strumenti, metodi e approcci. Attraverso questo lavoro si è cercato di comprendere perché persone con background tanto differenti abbiano rivolto le proprie attenzioni al recupero del passato di una città quale Torino, in cui l’occupazione francese e le continue guerre avevano destabilizzato lo sviluppo della cultura regionale e delle istituzioni scolastiche locali e in cui solo il trasferimento della capitale del ducato aveva dato avvio a un processo di rinascita culturale e si è cercato di andare alle radici di uno sviluppo tanto precoce degli studi sulle antiquitates piemontesi e della loro scoperta e valorizzazione tra xvi e xvii secolo. Il punto di partenza dell’indagine sono stati quegli studi condotti nel corso dell’Ottocento, che hanno contribuito a far uscire dall’oblio le figure di questi eruditi; in particolare Gaudenzio Claretta, Ferdinando Gabotto, Domenico Promis e la fondamentale opera di Carlo Promis le iscrizioni raccolte in piemonte e specialmente a Torino da Maccaneo, Pingone, Guichenon tra l’anno MD e il MDCL. Dall’analisi degli studi ottocenteschi e da quelle delle opere di questi eruditi si è, in primo luogo, cercato di evincere il dato biografico di ciascuno essendo carenti notizie ufficiali al riguardo. In secondo luogo, si è cercato di stabilire l’esistenza di rapporti tra questi eruditi, postulabili sulla base di analogie, corrispondenze e similitudini che saltano all’occhio dalla lettura comparata di questi scritti cinquecenteschi e secenteschi. Sebbene le notizie in nostro possesso non consentano di stabilire con certezza né l’esistenza di eventuali relazioni tra i soggetti, né dipendenze contenutistiche certe tra le opere, la ripetitività nella presentazione della documentazione induce a postulare che esse esistessero. Con questa ricerca si è cercato di offrire uno spaccato della realtà culturale torinese tra Cinquecento e Seicento mettendo in luce i rapporti tra gli eruditi, le gerarchie dei testi, le reciproche dipendenze e le conseguenze di questi concatenamenti di studi, in un’epoca in cui la preoccupazione di non falsificare la storia e di controllare personalmente l’attendibilità delle affermazioni riportate non era una priorità. Si può sì sostenere che le più antiche sillogi che si possiedono risalgono al ix secolo, ma è solo col fiorire dell’umanesimo che lo studio e la raccolta dei reperti in piemonte cominciò ad avere una connotazione storica e documentaria, benché precaria e non scientifica e metodologica. Per quanto riguarda torino e la regione la raccolta cominciò proprio con Simeoni, Maccaneo, Merula, Maccio, Ligorio e Guichenon, i quali per di più si “aiutarono” tra di loro, scambiandosi informazioni, reperti, iscrizioni. C’è chi lo fece citando la fonte dalla quale prese spunto, c’è chi lo fece tacendola.

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