Suicide Club

Vale la pena vivere in eterno, se questo significa rinunciare al piacere?
“Suicide Club” di Rachel Heng fa riflettere sulle contraddizioni della società contemporanea, in cui lo stile di vita sano e equilibrato è reclamato a gran voce in nome di una vita più lunga. Ma il gioco vale la candela?
Lea, la protagonista di questo romanzo, di anni ne ha cento, eppure grazie ai progressi della scienza ne dimostra meno di quaranta. Per alcuni fortunati scelti alla nascita, infatti, la durata della vita si è triplicata. Le condizioni sono poche e semplici: mangiare sano, non bere, non fumare, non allenarsi troppo, non ascoltare musica triste. La nuova fase dell’esperimento, addirittura, promette a questi privilegiati di sconfiggere la morte.
Un giorno però Lea intravede suo padre in mezzo al traffico: sono ottantotto anni che non lo vede e per cercare di raggiungerlo dall’altra parte della strada quasi si fa investire. L’avventatezza del suo gesto la farà cancellare dal programma vita eterna, costringendola invece a prender parte a un gruppo di sostegno per riflettere sulla sua azione. Sarà lì che scoprirà dell’esistenza del Suicide Club: ribelli che, non solo partecipano a concerti clandestini, praticano sport estremi e mangiano ciò che vogliono, ma che pretendono anche di decidere quando e come metter fine alla loro vita. Tra di loro c’è anche il padre di Lea, che ormai ha quasi centoquarant’anni e che nella sua vita ha accumulato molte più esperienze della figlia.
Che fare dunque, si chiede Lea: vivere un’eternità di rinunce o morire forse domani, ma essendosi goduti la vita?
“Suicide Club” di Rachel Heng ci pone proprio di fronte a questo dubbio esistenziale.