Professioni e mestieri dell'alimentazione nella produzione statutaria dei comuni medievali laziali di Danilo Forte

Professioni e mestieri dell'alimentazione nella produzione statutaria dei comuni medievali laziali

Tipologia:

Tesi vecchio ordinamento

Anno accademico:

2008/2009

Relatore:
Maria Teresa Caciorgna
Correlatore:
Jean-Maire Vigueur
Facoltà:

Lettere

Corso:

Lettere

Cattedra:

Storia economica e sociale del Medioevo

Lingua:
Italiano
Pagine:
5
Formato:
Pdf
Protezione:
DRM Adobe
Dimensione:
2.30 Mb

Descrizione Professioni e mestieri dell'alimentazione nella produzione statutaria dei comuni medievali laziali

1. Problemi e aspetti della normativa statutaria. "Populi sunt de iure gentium, ergo regimen populi est de iure gentium, sed regimen non potest esse sine legibus et statutis, ergo eo ipso quod populus habet per consequens regimen in suo esse sicut omne animal regitur a suo spirito proprio et anima, et si bene se regit non potest superior impedire, quia propter bene viventes non sunt factae leges proibitorie se propter errantes [...] si ergo statuta sunt bona secundum exigentiam et conservationem publica illis loci, non indigente alio directore, quia confimata sunt ex propria naturali iustitia". Così uno dei maggiori giuristi medievali, il perugino Baldo degli Ubaldi, vissuto nel XIV secolo, commenta la legge "Omnes populi", frutto del pensiero di Gaio, giurista romano del II secolo d.C., che intendeva spiegare il diritto di tutte le genti, in questo caso il popolo dell'Impero romano, e un altro diritto proprio delle civitas: da qui, a dedurre che nel Medioevo ogni città  poteva dotarsi di una propria legiferazione il passo è stato breve, anche se non sufficiente da solo ad attribuire legittimità  alla particolare fonte costituita dallo statuto. La questione legata alla creazione di raccolte statutarie da parte di città  e castelli è stata largamente dibattuta a partire dal XII secolo, periodo in cui i Comuni italiani, complice lo sgretolarsi della rigida struttura feudale in Italia, stavano sorgendo come centri di grande importanza politica ed economica, diventando il punto di riferimento per ampie fette di territorio. Tale consapevolezza portò le città  lombarde al contrasto politico-militare con l'Impero di Federico I Barbarossa, lotta che culminò con la Pace di Costanza del 1183, in cui fu confermata la formale sottomissione dei Comuni all'Impero, ma sancì anche il riconoscimento imperiale delle consuetudini, quelle autonomie che i Comuni avevano usurpato, e la rinuncia alla regalie. L'Impero riteneva che il testo della pace vigesse solo nei confronti delle città  espressamente nominate e che la sua efficacia fosse condizionata dal rispetto della fedeltà  al monarca, che comunque poteva revocare a sua discrezione i privilegi concessi. Ben diversa interpretazione fu data dai Comuni, e non solo quelli menzionati nel testo, visto che addirittura, la Pace di Costanza fu inserita nel Corpus Iuris e il cardinale Ostiense la chiamerà  Novella lombarda. Dalla lettura del primo articolo del trattato di pace, possiamo vedere che l'Imperatore Federico I, oltre a concedere, alle città , le regalie che gli erano dovute, lasciava ai Comuni il diritto di esercitare le proprie consuetudini normative, sia in campo penale che pecuniario, all'interno delle mura cittadine quanto sul territorio, di poter disporre liberamente di tutte le pertinenze del contado, ovvero boschi, pascoli, fiumi e mulini, oltre a poter arruolare un proprio esercito e a fortificare le mura urbane. Era così sancita la nuova situazione politica ed economica che si stava sviluppando in Italia, dove un sistema feudale prevalentemente terriero lasciava spazio a centri demici attivi nel campo della produzione di manufatti e dediti al commercio, che, proprio per queste ragioni, avevano bisogno di una maggiore tutela dei propri interessi nel campo del diritto, tutela che l'Impero non poteva più garantire. La base normativa, su cui poggiavano le diverse raccolte statutarie di cui si sono dotati i Comuni italiani, erano le consuetudini, leggi, in genere non scritte, ma che si rispettava da tempo e che attendevano solo il momento in cui le città  raggiungessero la maturità  necessaria per dotarsi di quelle figure istituzionali di governo cittadino, quali il podestà , i consoli, i consigli di governo ecc., per essere sancite e approvate. La peculiarità  delle consuetudini era che queste rappresentavano, in genere, la volontà  popolare dei cittadini, ragione per cui, nel momento in cui diventavano una rubrica dello statuto comunale, la normativa consuetudinaria doveva essere "approbatam" o "licitam et longo tempo observatam". A questo proposito, precisa Campitelli che "consuetudini e Statuti non furono confusi, in quanto la prima fondava la sua validità  sugli usi inveterati che il popolo rispettava da tempo e che venivano redatti per iscritto al fine di premunirsi contro il pericolo di frodi. Lo Statuto era, invece, norma vera e propria, emanata dagli organi espressamente preposti allo scopo nella costituzione del Comune". A conferma di questo, possiamo portare, ad esempio, il fatto che alcune delle prime redazioni consuetudinarie rimasero spesso distinte dagli Statuti, in un volume a parte, come a Pisa, dove, essendo state raccolte le consuetudini fin dal 1142, troviamo nel 1160 accanto al "Constitutum legis" anche l'antico "Constitutum usus".

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