Da Ernesto de Martino a Michael Herzfeld: la cultura popolare italiana nell'antropologia visiva di letizia menolfi

Da Ernesto de Martino a Michael Herzfeld: la cultura popolare italiana nell'antropologia visiva

Tipologia:

Tesi di Laurea di secondo livello / magistrale

Anno accademico:

2008/2009

Relatore:
Cristina Grasseni
Correlatore:
Ivo Lizzola
Corso:

Consulenza pedagogica e ricerca educativa

Cattedra:

Antropologia dell'educazione

Lingua:
Italiano
Pagine:
96
Formato:
Pdf
Protezione:
DRM Adobe
Dimensione:
8.91 Mb

Descrizione Da Ernesto de Martino a Michael Herzfeld: la cultura popolare italiana nell'antropologia visiva

Il mio percorso di ricerca per la tesi è stato sollecitato dall'interesse per "Monti Moments. Men's memories in the heart of Rome”, film girato nel 2007 da Michael Herzfeld, professore di antropologia ed etnologia europea presso l'Università di Harward, nel Rione Monti a Roma. Herzfeld ha vissuto in questo quartiere per un lungo periodo di tempo e attraverso il metodo dell'osservazione partecipante sono nate delle amicizie, che hanno permesso la riuscita del documentario e dell'intento di Herzfeld, ovvero quello di dare la possibilità alla gente di esprimersi, cercando di non intervenire. "Monti Moments” è un esempio di cinema d'osservazione, in quanto l'etnografo ha voluto mostrare, non argomentare, le problematiche e le dinamiche quotidiane del rione e dei suoi abitanti. Questo film deriva da un'esperienza fondata sul dialogo e la reciproca conoscenza fra regista e attori è un tentativo di rappresentare situazioni sociali guardando il più possibile dal di dentro; da qui emerge un concetto fondamentale per Herzfeld, quello di intimità culturale, che significa entrare in rapporto paritetico con l'altro. Herzfeld, quindi, si è immerso nelle questioni, nelle contraddizioni e nella vita del rione, vivendo coi suoi abitanti sfide, lotte, ideali. La visione di "Monti Moments” e l'approfondimento della ricerca di Herzfeld mi hanno permesso di pormi delle domande riguardo all'antropologia visuale in Italia, disciplina sviluppatasi nel corso del XX secolo e che ha allettato numerosi studiosi, antropologi e registi, fra i quali ho analizzato maggiormente Ernesto de Martino, antropologo ed etnologo napoletano, interessato soprattutto alla questione delle classi subalterne meridionali nel periodo del dopoguerra. Innanzitutto, è fondamentale sottolineare come de Martino non abbia semplicemente argomentato ma abbia attuato una scelta di campo precisa e innovativa per l'epoca. Infatti, egli prese in considerazione l'approccio del neorealismo, distaccandosi da verismo e naturalismo, correnti che intendevano il mondo contadino come un mondo arcaico e arretrato, fuori dal tempo e dallo spazio della civiltà europea; mentre, invece, de martino puntava a una denuncia immediata e a un progetto diretto di trasformazione politica. Infatti, l'antropologo napoletano era impegnato in ambito sociale, politico e civile e fu anche militante nei partiti della sinistra, esperienza che gli permise di entrare in contatto diretto coi contadini del sud. Nel dopoguerra iniziò la cosiddetta fase meridionalista per de Martino, il cui obiettivo era quello di trasmettere una nuova visione del Mezzogiorno, riscattando le classi subalterne e le loro identità, minacciate di disintegrazione dalla precarietà e dalla miseria; de Martino ha, quindi, puntato al recupero dei fenomeni culturali, soprattutto quelli legati alla sfera religiosa. Le opere demartiniane di quel periodo furono "Morte e pianto rituale”, "Sud e magia” e "La terra del rimorso”, che riguardano i documenti raccolti dall'antropologo rispetto alle manifestazioni magico-religiose, analizzate in base alle origini storico-socio-culturali. Nelle opere di questa fase emerge il rifiuto verso ogni forma di etnocentrismo e di pregiudizio sociale: infatti, emerge una nuova visione del Mezzogiorno, inteso da de Martino come un mondo caratterizzato da una miseria determinata da condizioni storico-sociali, imposte da un regime di subalternità plurisecolare. In particolare, mi sono soffermata su "La terra del rimorso”, testo che riprende l'inchiesta del 1959 riguardante il fenomeno del tarantismo nel Salento: l'èquipe demartiniana sottolineò quanto e come questo fenomeno influenzasse le persone, in base alla classe sociale, al grado di istruzione e alla formazione culturale. Secondo la credenza popolare, il tarantismo era una malattia, provocata dal morso della taranta, caratterizzata da uno stato di malessere generale e per la quale il rimedio era una terapia musicale-coreutica. Le danze sfrenate venivano, quindi, intese come il mezzo per guarire dal veleno ma la ricerca demartiniana mise in luce come potessero essere lo strumento per esprimere e arginare mali molto differenti, determinati dalla situazione precaria delle classi subalterne. Secondo la letteratura medica precedente, il tarantismo consisteva in un disordine psichico, mentre, invece, l'èquipe del '59 definì una serie di indicatori che potenziassero il condizionamento storico-culturale del fenomeno (ripetizione stagionale, massiccia partecipazione femminile, distribuzione familiare); queste dimensioni portarono de Martino e i suoi collaboratori ad assumere un'interpretazione simbolica del tarantismo, che non venne più inteso come un disordine psichico ma come un ordine simbolico, condizionato culturalmente e storicamente. La missione pedagogica demartiniana produsse l'esigenza di una sua divulgazione.

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