Anni d'infanzia. Un bambino nei lager di Jona Oberski edito da Giuntina
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Anni d'infanzia. Un bambino nei lager

Editore:

Giuntina

Edizione:
10
Traduttore:
Pandolfi A.
Data di Pubblicazione:
1 aprile 1995
EAN:

9788885943490

ISBN:

8885943497

Pagine:
119
Formato:
brossura
Disponibile anche in E-Book
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Trama Anni d'infanzia. Un bambino nei lager

«La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non aveva neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo...».

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4 di 5 su 3 recensioni

Quando s'interrompe l'infanziaDi b. claudia-31 agosto 2011

Un centinaio di pagine scritte con linguaggio semplice, essenziale, nudo. E' Jona che scrive, il protagonista ebreo che vive l'esperienza drammatica dei lager, la liberazione da parte dei russi e quindi l'inizio di una nuova vita, senza mamma e papà, morti in quegli anni terribili. Il libro viene scritto moltissimi anni dopo, anche a seguito di un'esperienza decennale di analisi che ha portato l'autore, allora bimbo di quattro anni, ad illuminare il "buco nero"di quel periodo orribile della sua infanzia troncata a metà. Le scene descritte sono molto semplici eppure di una crudezza e un realismo che colpiscono duramente chi legge. Da apprezzare come l'autore sia riuscito a raccontare prorio come se fosse il bambino di allora, come se stesse vivendo, rivivendo, quelle drammatiche giornate. Ci si rende conto molto bene di cosa possa essere stato quell'inferno per un bambino così picolo e di come il trauma vissuto possa avergli condizionato a lungo la vita. Vale la pena leggerlo.

Il buco nero nel tempoDi M. MARA-13 febbraio 2009

Un amico ricco di sensibilità e cultura, Luca Alessandrini, direttore dell'Istituto Regionale per la Storia della Resistenza di Bologna -che vanta pure una fornitissima biblioteca-, mi ha consigliato la lettura di questo libretto, risalente a molti anni fa, ma attualissimo. Si tratta di un approccio al tema della Shoah originale per gli anni in cui fu scritto, mi ha detto; da un olandese, il quale narra la sua esperienza. Il tono di Luca era un po' criptico; nonmi ha spiegato in che cosa consistesse l'originalità; per il piacere della scoperta, ho subito seguito il consiglio, senza rivolgere domande. L'Autore, nato ad Amsterdam nel 1938, membro di un importante istituto di fisica nucleare, nel 1977 scrisse quest'opera che, uscita in Patria due anni dopo e successivamente in diversi Paesi nel mondo, suscitò un notevole interesse di pubblico e critica. Negli anni '80 il regista italiano Roberto Faenza ne trasse un film "Jona che visse nella balena" Teatro della vicenda sono gli anni 1942/1945, durante l'occupazione tedesca dell'Olanda. Obierski racconta in prima persona le vicende di un piccolo ebreo che, all'età di quattro anni, viene deportato in un campo di concentramento insieme ai genitori. In un primo momento madre e figlio vengono rimessi in libertà, ma non per questo la situazione della famiglia si rasserena, anzi il piccolo si trova a vivere situazioni in apparenza banali, che tuttavia si colorano di grave minaccia. Poco dopo, infatti, l'intera famiglia viene deportata in un lager. Là Jona viene a contatto con la terribile realtà della fame, delle privazioni e, soprattutto, della morte. Dapprima del padre, evento cui vuole assistere per una sorta di emulazione -e ricerca di accettazione- nei confronti degli altri bambini, deportati come lui, indi dell'adorata madre, che non resiste alle dure privazioni e alla perdita del coniuge. La storia è emozionante proprio perché è vissuta attraverso gli occhi e il cuore di un bambino dai quattro ai sette anni, non completamente consapevole di quanto gli sta accadendo e al quale viene fatto credere dai familiari, per non spaventarlo (e magari in una sorta di autoillusione), di essere in viaggio per la Palestina. I singoli episodi sono riportati, per così dire, allo stato nascente, senza valutazione o spiegazione, espressi in un linguaggio elementare, talora immaginifico, filtrati, anche quelli più tragici, da quell'apparente indifferenza infantile che noi adulti a volte riteniamo, sbagliando, priva di conseguenze nel futuro. Un genere nuovo per l'epoca in cui l'opera fu scritta; genere che, nel corso degli anni è stato esplorato con diversi contributi, anche nel cinema: pensiamo, ad esempio, al celebre "La vita è bella" di Roberto Benigni, la cui (apparente) leggerezza nel mostrare il Male esprime la sensibilità di un bambino di fronte ad esso, senza mediazioni o riflessioni. Queste verranno in un secondo tempo, col loro bagaglio di dolori e di traumi. "Un bambino guarda intorno a sé con gli occhi sgranati"; affermava lo scrittore israeliano Etgar Keret durante un incontro recente, a Roma, nel ricordare la storia, davvero tragica, della sua famiglia d'origine; la tragedia può raggrumarsi in un lato oscuro della personalità, suscettibile di emergere, egli proseguiva, da un momento all'altro (che infatti riaffiora, qua e là, all'improvviso, nelle opere di Etgar, solo in apparenza dissacranti come, ad esempio, il film "Meduse"). Sarà grazie ai genitori adottivi incontrati dopo la liberazione, coloro ai quali il libro è dedicato, con parole poste significativamente al termine dello stesso, che il piccolo Jona (ri)troverà quell'equilibrio per affrontare e superare pian piano i suoi incubi (il buco nero nel tempo, come egli li chiama) e donarci, dopo averla rielaborata a circa un trentennio di distanza, questa toccante testimonianza. Mara Marantonio Bernardini, 8 febbraio 2009

Un bambino davanti al maleDi M. MARA-13 febbraio 2009

Un amico ricco di sensibilità e cultura, Luca Alessandrini, direttore dell'Istituto Regionale per la Storia della Resistenza di Bologna -che vanta pure una fornitissima biblioteca-, mi ha consigliato la lettura di questo libretto, risalente a molti anni fa, ma attualissimo. Si tratta di un approccio al tema della Shoah originale per gli anni in cui fu scritto, mi ha detto; da un olandese, il quale narra la sua esperienza. Il tono di Luca era un po' criptico; nonmi ha spiegato in che cosa consistesse l'originalità; per il piacere della scoperta, ho subito seguito il consiglio, senza rivolgere domande. L'Autore, nato ad Amsterdam nel 1938, membro di un importante istituto di fisica nucleare, nel 1977 scrisse quest'opera che, uscita in Patria due anni dopo e successivamente in diversi Paesi nel mondo, suscitò un notevole interesse di pubblico e critica. Negli anni '80 il regista italiano Roberto Faenza ne trasse un film "Jona che visse nella balena" Teatro della vicenda sono gli anni 1942/1945, durante l'occupazione tedesca dell'Olanda. Obierski racconta in prima persona le vicende di un piccolo ebreo che, all'età di quattro anni, viene deportato in un campo di concentramento insieme ai genitori. In un primo momento madre e figlio vengono rimessi in libertà, ma non per questo la situazione della famiglia si rasserena, anzi il piccolo si trova a vivere situazioni in apparenza banali, che tuttavia si colorano di grave minaccia. Poco dopo, infatti, l'intera famiglia viene deportata in un lager. Là Jona viene a contatto con la terribile realtà della fame, delle privazioni e, soprattutto, della morte. Dapprima del padre, evento cui vuole assistere per una sorta di emulazione -e ricerca di accettazione- nei confronti degli altri bambini, deportati come lui, indi dell'adorata madre, che non resiste alle dure privazioni e alla perdita del coniuge. La storia è emozionante proprio perché è vissuta attraverso gli occhi e il cuore di un bambino dai quattro ai sette anni, non completamente consapevole di quanto gli sta accadendo e al quale viene fatto credere dai familiari, per non spaventarlo (e magari in una sorta di autoillusione), di essere in viaggio per la Palestina. I singoli episodi sono riportati, per così dire, allo stato nascente, senza valutazione o spiegazione, espressi in un linguaggio elementare, talora immaginifico, filtrati, anche quelli più tragici, da quell'apparente indifferenza infantile che noi adulti a volte riteniamo, sbagliando, priva di conseguenze nel futuro. Un genere nuovo per l'epoca in cui l'opera fu scritta; genere che, nel corso degli anni è stato esplorato con diversi contributi, anche nel cinema: pensiamo, ad esempio, al celebre "La vita è bella" di Roberto Benigni, la cui (apparente) leggerezza nel mostrare il Male esprime la sensibilità di un bambino di fronte ad esso, senza mediazioni o riflessioni. Queste verranno in un secondo tempo, col loro bagaglio di dolori e di traumi. "Un bambino guarda intorno a sé con gli occhi sgranati"21; affermava lo scrittore israeliano Etgar Keret durante un incontro recente, a Roma, nel ricordare la storia, davvero tragica, della sua famiglia d'origine; la tragedia può raggrumarsi in un lato oscuro della personalità, suscettibile di emergere, egli proseguiva, da un momento all'altro (che infatti riaffiora, qua e là, all'improvviso, nelle opere di Etgar, solo in apparenza dissacranti come, ad esempio, il film "Meduse"). Sarà grazie ai genitori adottivi incontrati dopo la liberazione, coloro ai quali il libro è dedicato, con parole poste significativamente al termine dello stesso, che il piccolo Jona (ri)troverà quell'equilibrio per affrontare e superare pian piano i suoi incubi (il buco nero nel tempo, come egli li chiama) e donarci, dopo averla rielaborata a circa un trentennio di distanza, questa toccante testimonianza. Mara Marantonio Bernardini, 8 febbraio 2009