Ho servito il re d'Inghilterra di Bohumil Hrabal edito da E/O
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Ho servito il re d'Inghilterra

Editore:

E/O

Collana:
Praghese
Traduttore:
Corduas S.
Data di Pubblicazione:
12 febbraio 2014
EAN:

9788866324447

ISBN:

8866324442

Pagine:
218
Formato:
brossura
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Trama Ho servito il re d'Inghilterra

Il libro esibisce una vasta gamma di registri, di storie, di aspirazioni. C'è un erotismo festoso; c'è un'assoluta passione per la vita, per le sue sorprese; c'è la voglia di denaro e di successo come ansia di riconoscimento; c'è la tristezza della vita come delusione e solitudine: c'è una festa di immagini e di poesia.

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5 di 5 su 3 recensioni

Appunti di saggezzaDi F. Ivan-7 marzo 2011

Un romanzo da leggere tutto d'un fiato, così com'è scritto quasi senza punteggiatura e con un finale mozzafiato. Una serie di sequenze temporali che attraversano un lungo arco di storia contemporanea cecoslovacca, raccontando con precisione quotidiana momenti di vita qualunque con l'aggiunta di impennate surrealiste. Uno humor scanzonato, visionario, pirotecnico, saggio.

un libro vivoDi M. Tiziano-24 settembre 2010

Uno dei migliori libri di Hrabal, assieme alla solitudine troppo rumorosa. Non racconta altro che la storia di un cameriere, un arrampicatore sociale, che serve, man mano che gli anni passano, ain 5 diversi alberghi. Ogni albergo ha le sue peculiarità, ogni albergo palpita di una sua vita propria. Chi legge si immerge, attraverso le interminabili frasi tipiche dell'autore, nel mondo del libro, vale a dire la Cecoslovacchia dal 1918 al 1950 e ne segue, tramite le avventure del protagonista e dei suoi comèpagni, gli epici sconvolgimenti, dalla Repubblica all'occupazione tedesca e a quella Russa. Un libro vivo, che odora di birra e salame ungherese.

La pazienza e HrabalDi l. graziella-6 luglio 2010

Mi sono ritrovato ultimamente a leggere, non per caso ma per necessità, un libro di Bohumil Hrabal, "Ho servito il re d’Inghilterra", edizioni e/o, Roma 1991. Necessità, perché inizialmente mi ero dedicato alle sole prime righe, causa la mancanza di tempo. Poi come spesso accade coi buoni libri il tempo in carenza lo si trova, o lo si sottrae ad altre faccende. Fatto sta che ogni dieci pagine mi dicevo “ora lascio stare e riprendo tra un paio di mesi”, come quando un pomeriggio d'estate, qualche anno fa, mi capitò di salire per un sentiero sotto l’Appennino tosco emiliano in cerca di una casa che sapevo essere lì da qualche parte, ma il sole calava, il sentiero seguiva, e la speranza si nascondeva. Più salivo e più rischiavo, nel caso avessi deciso di tornare sui miei passi, di perdere l’ultimo treno. La cosa ridicola era che a ogni curva sostavo guardando la seguente, e dicendo dentro di me “ora lascio stare, ci riprovo la prossima estate”. Sicché puntualmente ripartivo, e alla fine trovai anche la casa, senza più la speranza (era solo per inerzia). Così con il libro di Hrabal. Sono appena arrivato a quota 216 pagine e mi concedo la velleità di parlarne prima di leggere anche le ultime 40. Beh, non è che abbia molto da dire. La sola cosa degna - per me, per carità - di nota, è che il personaggio del libro, cameriere aspirante maitre, gran lavoratore pieno d’espedienti e di iniziativa, a un certo punto si vuole impiccare. Si è appena conclusa una gran cena con ospite d’onore l’Imperatore d’Etiopia, al quale i cuochi hanno servito un cammello ripieno di due antilopi ripiene rispettivamente di tacchini a loro volta ripieni di spezie e uova sode e forse dimentico altro, e il semplice cameriere Dítĕ riceve delle onorificenze per il suo buon servizio. Ha infatti versato il vino all’Imperatore quando il maitre se n’è dimenticato. Ciò innesca una proiezione di gelosia, da parte del protagonista, nel maitre e nel resto del personale. Così che quando ci si accorge della sparizione di un cucchiaino d’oro, al momento di lavare le stoviglie, Dítĕ interpreta il vociare del corpo di camerieri come un’accusa verso di lui. Lui è intimamente innocente e sicuro della sua innocenza, eppure si lascia cogliere dalla depressione e, penso io, dal senso di colpa. Si fa portare in taxi all’ingresso di un boschetto, con la scusa di fare due passi, e lì tenta l’impiccagione, se non fosse che all’albero prescelto trova suo malgrado, nel buio, tastando sopra ciò che non gli parevano ancora malleoli, il corpo freddo e penzolante di un uomo anticipatolo in opera e intenzioni. Dallo spavento scappa, salvandosi. Quello che mi ha interessato è stato quel senso di colpa subìto e maturato dall’interno. L’autoconvincersi di Dítĕ d’una colpa la cui inesistenza è indubbia. Lui vede compiersi un fatto degno di colpa, immagina che altri gli stiano attribuendo quella colpa, e subito la proietta su di sé; si rende protagonista di una fantasia maledettamente reale.