Gran bella cosa è vivere, miei cari di Nazim Hikmet edito da Mondadori

Gran bella cosa è vivere, miei cari

Editore:

Mondadori

A cura di:
G. Bellingeri
Traduttore:
Beltrami F.
Data di Pubblicazione:
12 ottobre 2010
EAN:

9788804603221

ISBN:

8804603224

Pagine:
262
Formato:
rilegato
Disponibile anche in E-Book
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Trama Gran bella cosa è vivere, miei cari

Pubblicato nel 1962, un anno prima della sua morte in esilio a Mosca, Gran bella è cosa vivere, miei cari è un romanzo la cui gestazione ha accompagnato gran parte della vita di Hikmet. Pur trattandosi di un'opera di fiction, le vicende che Hikmet racconta sono attinte dalla sua biografia: sua è la voce del narratore, un uomo morso da un cane rabbioso che attende la fine del periodo di incubazione isolato in una capanna dell'Anatolia lasciandosi andare alle intermittenze della memoria e del cuore; suo è il "materiale di vita" che si accumula nelle pagine, gli squarci sull'infanzia, i momenti di attivismo politico, le sofferenze dell'esilio; suo l'incancellabile ricordo di un'amatissima donna, Anushka, sfuggente e contesa. Ma definire questo romanzo come semplicemente autobiografico sarebbe oltre modo riduttivo. Perché scorre nelle sue pagine una forza creativa che attinge alla poesia di Hikmet e a tutta la sua opera, in un singolare procedimento che si potrebbe semmai definire "autobiografico".

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4 di 5 su 1 recensione

Gran bella cosa è vivere, miei cari!Di R. Pasqualina-27 settembre 2011

A una specie di biografia coi crismi del romanzo il buon Hikmet lavorò nell'ultimo arco della sua vita, romanzo autobiografico perché il protagonista, Ahmet, è sicuramente il doppio del poeta, come lui comunista turco, perseguitato dal regime e alla fine esule in Unione Sovietica. Ma non c'è vena intimistica, o ripiegamento individuale: il romanzo è piuttosto un grande affresco allo stesso tempo sulla Turchia moderna, tra le due guerre, sul comunismo (le sue idealità "romantiche", la sua utopia sincera) , sulla politica, la patria, l'amore, la vita. Con una prosa asciutta, Hikmet allestisce una narrazione frammentata, densa di fascino, che si potrebbe definire ipertestuale. Due ne sono i dispositivi principali: il continuo passaggio - in relazione al personaggio di Ahmet - dalla terza persona alla prima, che favorisce al lettore una doppia focalizzazione dello stesso, interna ed esterna allo stesso tempo; la disarticolazione dei piani temporali, per cui la narrazione riguarda senza un ordine fisso, mischiandoli, il tempo della formazione a Mosca, il tempo della repressione in Turchia, il tempo dell'esilio. Gli esiti sono di grande lirismo, come quando AhmetHikmet recita i versi di Mevlana ("Ascolta il racconto del flauto di canna Com'esso dolente lamenta il distacco") all'amata Anuska, e poi glieli spiega: "il flauto è fatto di canna, è tagliato dal canneto. Per questo quando lo si suona, lamenta la separazione. L'uomo è una parte dell'universo, cioè di Dio, dal quale è strappato, separato, e di questo distacco si lamenta l'uomo, cioè il poeta". Alla fine, il senso del romanzo, è tutto qui, nella dialettica tra la gioia e la sofferenza, la comunione e il distacco. "Perché contare quanti giorni ci rimangono qui, Ahmet? Se sto assistendo a qualcosa di bello a teatro non mi salta in mente di calcolare quanto durerà ancora la rappresentazione. Guardo lo spettacolo come se non dovesse finire mai". La vita è una gran bella cosa, comunque...